10 aprile 2024

Fetonte: breve storia di un mito

 


La mitologia greca è l’insieme dei miti e delle leggende legati alla cultura dell’antica Grecia. I racconti alla base della mitologia greca nascono tra il IX° e l’VIII° secolo avanti Cristo e In origine sono trasmessi per via orale, successivamente vengono raccolti, ampliati e messi per iscritto. La mitologia classica greca e romana non racconta solo storie di divinità, ma anche di uomini, spesso protagonisti di vicende tragiche, alcuni racconti della mitologia sono metafore di eventi storici. In generale il mondo della mitologia riflette la natura e la società degli uomini, gli Dei hanno vizi e difetti tipici dei mortali: sono gelosi, vendicativi, spesso accecati dalla passione. Tra i tanti personaggi della mitologia, parleremo di un mito che ha interessato con le sue vicende il nostro territorio: si tratta di Fetonte, nato da un dio dell’olimpo, ha attraversato il cielo ed è morto cadendo sulla terra. Tante sono state le versioni del mito di Fetonte raccontate da diversi autori tra i filosofi, letterati e storici che parlarono di Fetonte.

Esiodo, poeta greco che scrisse tra la fine del 700 e l’inizio del 600 a.c., Erodoto storico dell’antico mondo greco considerato da Cicerone come il padre della storia, Euripide drammaturgo greco, considerato tra i padri delle tragedie greche, Platone filosofo greco, uno dei fondatori del pensiero filosofico occidentale, Marco Valerio Marziale poeta romano, Dante Alighieri padre della lingua italiana. Giosuè Carducci, scrittore e critico letterario, insegnò all’università di Bologna, fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura e citò Fetonte nella lirica “Alla città di Ferrara”

“terre pensose in torvo aëre greve,

su cui perenne aleggia il mito e cova

leggende e canta a i secoli querele,

ditemi dove

rovescio, il crin spiovendogli, dal sole

mal carreggiato (e candide tendea

al mareggiante Eridano le braccia)

cadde Fetonte”

Noi ci affidiamo a quella descritta da Ovidio, poeta romano, tra gli esponenti della letteratura latina. Publio Ovidio Nasone, noto semplicemente come Ovidio nacque a Sulmona, in Abruzzo, nel 43 a.C. da famiglia appartenente al rango equestre molto illustre, trasferitosi a Roma studiò grammatica e retorica presso insigni maestri. Ovidio è stato famosissimo nel suo tempo e anche dopo la sua morte, tanto che ne riprendono i temi e imitano il suo stile moltissimi altri autori. La grande opera di Ovidio, quella che gli ha dato fama immortale le Metamorfosi, poema in XV libri terminate nell' VIII° secolo d.c. (periodo augusteo) dove, in 11.995 versi, ci ha trasmesso le più celebri storie della mitologia greco-romana descrivendo 250 personaggi mitologici. Il suo modo di fare poesia Ovidio si allontana dalla compostezza classica egli è innovatore, improvvisatore e moderno rimanendo comunque un poeta, Calvino ne esalta la leggerezza e la vivacità espressiva, capace di rendere sempre in modo plastico tutto ciò che sta accadendo.

Incominciamo con l’individuare il luogo dove avvenne l’epilogo della nostra storia che è molto vicino a noi, dove trovò la morte Fetonte. Il Po è il più lungo fiume d'Italia ma ha uno dei nomi più corti, due sono le lettere per una sola sillaba, ma al breve nome corrisponde una lunga storia. Partiamo dal nome greco: Heridanos, che è anche il nome di una costellazione dell'emisfero celeste australe, ha inizio dalla stella di Orione e si sviluppa da nord a sud, osservandola ricorda il corso di un fiume con le sue anse. Torniamo sulla terra, anzi nell'acqua del nostro fiume, non tutte le fonti storiche e mitologiche ricollegano l' Eridano al Po, per alcuni coincideva con il Nilo, per altri con il Rodano, Virgilio nell'Eneide lo cita come uno dei fiumi degli Inferi, ma la maggior parte degli storici ricollegano l' Eridano al Po. Ma Cosa significa la parola Eridano? In greco significa fiume del sole, della luce o del fuoco, infatti si compone di Ero che si intende come luce, fuoco, sole e Danos che significa fiume. Se per i greci era l' Eridano, per i Liguri, popolazione che abitava quella che allora era la Pianura Padana, era il Bodinco o Bodenco dove il sostantivo Bod significa mare, lago, laguna o pantano, e inco o enco sta per fiume, quindi Bodenco sarebbe il fiume-mare o il fiume-palude. Deduzione confermata dalla conformazione geofisica del Po in epoche antiche, infatti il tratto finale del fiume era differente dall'attuale, perché si dirigeva nell'Adriatico attraverso una grande estensione di paludi. Padus è invece il nome romano del nostro fiume, secondo alcuni il nome Padus deriverebbe dai numerosi alberi di pino che all'epoca costeggiavano il corso fluviale e da Padus deriva poi Padana, il nome della pianura dove noi ci troviamo. E vediamo adesso il nostro protagonista: Fetonte, questo giovane personaggio della mitologia greca che da sempre ha incuriosito poeti e scrittori; Fetonte, un dio caduto sulla terra la cui storia è piena di fascino come una tragedia greca e stimolante come un giallo. Ma qual è la storia di Fetonte? Dunque, si narra che fosse il giovane figlio maschio del dio Febo Elios, che era conosciuto anche come Apollo ed era il Dio del sole. Apollo, l'infaticabile pilota di un carro che produceva luce e energia, tirato da cavalli vomitanti fuoco col quale compiva viaggi quotidiani e aveva una forza definita divina e paragonabile a quella del sole e con il sole veniva identificato. Il dio Febo Elio aveva avuto vari figli e figlie, tra le quali Lampetia "colei che illumina", Faetusa "la splendente" e Egle "la luce" esse custodivano le mandrie di Elio in Sicilia, in un'enorme fattoria che fu saccheggiata da Ulisse e compagni, secondo il racconto che ce ne fa Omero nell'Odissea. Ma il prediletto era il giovane maschio Fetonte, avuto dalla ninfa Climene. Tutto ebbe inizio in Etiopia, in un tempo leggendario in cui gli abitanti erano bianchi di pelle e i loro sovrani erano il re Merope e la regina Oceanina Climene, la ninfa figlia di Oceano. Accadde un giorno in cui il dio Apollo fermò in quel luogo il carro durante la sua traversata quotidiana del cielo, da est a ovest, per dare luce alla Terra. Il dio si imbatté nella straordinaria bellezza della regina Climene e improvvisamente si accorse che di lei non poteva fare meno e desiderò amarla, come detto gli dei cedevano alle forti passioni come gli uomini. Anche la regina rimase rapita al cospetto del dio il cui nome: Febo significa appunto “lo splendente”, che tale era e non solo in virtù del sole che trasportava sul suo famoso carro, ma anche perché era il dio della poesia e della musica, il dio nel cui aspetto si incarnava il sublime. Fu così che Apollo e la regina etiope si amarono e dal loro amore nacquero le Eliadi cioè le figlie di Elio (come era chiamato Apollo) e Fetonte. Un precedente significativo nella vita di Fetonte, lo mette in guardia su quanto potrà succedergli infatti, anche se meno nota del mito, è l'opera di un altro cronista del tempo: Nonno di Panopoli, che racconta la vita di Fetonte prima dell'episodio del carro solare e dove, ancora infante, giocando con Oceano, fu lanciato più volte in cielo e ripreso, fino a quando il bambino evitò la mano di Oceano per cadere nelle acque scure, e fu il presagio della sua futura fine. Fetonte crebbe lontano dal padre Apollo, era un figlio illegittimo e fu cresciuto in Etiopia dalla madre e dal re Merope, che lo aveva adottato e lì aveva una corte di amici tra cui Epafo, anch'egli figlio illegittimo di un dio, e che dio! Figlio di Zeus e di Io, quest'ultima, dopo essere stata amata da Zeus, fu trasformata in vacca ed errò per tutta la terra, inseguita dalla collera di Era. Trovò infine asilo sulle rive del Nilo, e qui, riassumendo la sua forma umana, dette alla luce due figli, Epafo, "il tatto di Zeus", e Ceroessa, ma per ordine di Era, i Cureti rapirono Epafo, e lo fecero così bene che Io non riuscì a trovarlo. Zeus uccise i Cureti e la madre Io si rimise alla ricerca del figlio, venne a sapere che era stato ritrovato dalla moglie del re di Biblo, in Siria, lo riportò in Egitto, dove l'allevò e diventato adulto vi vi regnò, succedendo al padre adottivo Telegono. Le insinuazioni di questo amico coetaneo furono la causa che avrebbe scatenato un tale putiferio, infatti Epafo tacciò Fetonte di ingenuità e presunzione per la sua ostentazione d'essere figlio di un Dio, che in realtà non aveva mai visto, mettendo in dubbio che l'amico fosse veramente figlio del magnifico Apollo.

“ . . . sciocco tu credi a tutto quello che ti dice tua madre,

e vai in trionfo di un padre immaginario. “

Scrive Ovidio di come si espresse Epafo e chiunque a proposito di un tema così importante, come quello delle origini personali, non tollererebbe mai un simile affronto e desidererebbe dimostrare a tutti e con qualsiasi mezzo, la propria identità. Così infatti intese fare Fetonte che, corso dalla madre e in preda a rabbia mista a disperazione, la supplicò di dargli le prove e la certezza di essere figlio di un Dio, del dio Elio; scrive nelle sue Metamorfosi Ovidio:

“ . . . Climene, non si sa se spinta più dalle preghiere del figlio

o dall'ira per essere stata messa sotto accusa

per questo fulgore splendido di raggi balenanti, che ci vede e ci ode

Io ti giuro, o figlio, che tu sei nato da questo sole che ti sta di fronte,

da questo sole che regola la vita sulla terra.

Se quel che dico e menzogna, mai più egli mi consenta di guardarlo

e sia questo per i miei occhi l'ultimo giorno.

Levò al cielo tutte e due le braccia e guardando dritto verso il sole esclamò:

Del resto, non ti ci vorrà molto a trovare la casa di tuo padre.

Il luogo dove dimora, e da dove sorge, è vicino alla nostra regione.

Se così ti aggrada, vai, e informati da lui direttamente.”

A tali parole Fetonte non indugiò e, con il cuore ansioso per l'imminente incontro col padre ancora sconosciuto, si mise in viaggio verso l'oriente fino a che, oltrepassata l'India, giunse finalmente alle porte della colossale e altissima residenza di Apollo. Era quello un palazzo interamente rivestito d'oro e Fetonte venne condotto il cospetto del Dio, ma non poté avvicinarsi più di quel tanto per via della luce accecante che il padre sprigionava. Ecco come si presentò la scena a Fetonte secondo il racconto di Ovidio:

“ . . . il sole sedeva, avvolto in un manto purpureo

su un trono scintillante di fulgidi smeraldi.

A destra e sinistra stavano il Giorno e il Mese e l'Anno,

e i Secoli, e le Ore disposte a uguale distanza una dall'altra;

stava la Primavera Incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda,

che portava ghirlande e spighe, e stava L'autunno

imbrattato di uva calpestata, e l'inverno ghiaccio, con capelli irrigiditi.”

Apollo lo accolse, fiero di essere il padre di Fetonte, il ragazzo era il simbolo dell'amore che lo univa a Climene e non gli avrebbe negato nulla pur di tranquillizzarlo in merito alla sua discendenza. Il giovane però voleva una prova dal padre, un segno incontrovertibile, un solo desiderio: essere lui, per un giorno, a dare la luce agli uomini guidando il carro del sole. Tutto si sarebbe aspettato Apollo, fuorché una richiesta del genere, tanto inequivocabile, quanto sconsiderata. Cosa fare? Accontentare il figlio per tenere fede alla promessa fattagli o rifiutarsi il nome della saggezza che la lunga esperienza gli conferiva? Più volte tentò Apollo di dissuadere il figlio, illustrandogli quanto la traversata fosse in realtà una quotidiana impresa che lui, soltanto lui, poteva compiere e comunque non senza fatica: lui, soltanto lui, nemmeno Giove Il re degli Dei avrebbe saputo farlo. Mantenere la giusta traiettoria era compito delicatissimo: la furia dei quattro cavalli che trainavano il cocchio richiedeva una mano forte e salda che li sapesse domare. Vi erano poi delle costellazioni minacciose come il Toro, il Leone, il Granchio che bisognava saper “prendere” per non scatenarne l'ira; ed era importantissimo approdare a Occidente dopo aver eseguito tutto secondo le regole quando il giorno volgeva al termine, perché sia alla terra che al cielo occorreva dare il giusto calore. In una parola, non ci si poteva permettere di sbagliare. Ma gli avvertimenti furono del tutto inutili: Fetonte non ne voleva sapere e più Apollo tentava di persuaderlo, più il ragazzo dubitava di avere discendenza divina. Fin quando, Apollo, davanti a quegli occhi ancora una volta volta lucidi di rabbia e amarezza si arrese e, pur con grande preoccupazione, assecondò il figlio. Era nel frattempo giunta l'ora di sorgere e nelle Metamorfosi leggiamo:

“ -Se puoi seguire almeno questi consigli di tuo padre,

evita ragazzo mio, di spronare e serviti piuttosto delle briglie.

Già tendono a correre di suo: è difficile e frenare la loro foga.

E cerca di non tagliare direttamente le cinque zone del Cielo.

C'è una pista che si snoda obliquamente, con una gran curvatura,

e resta compreso tra le sole zone senza toccare né il polo stradale,

né l'orsa dalla parte dell'Aquilone. Passa di lì;

Vedrai chiaramente le tracce delle ruote.

E perché il cielo e la terra ricevano pari giusto calore,

non spingere in basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo.

Spostandoti troppo verso l'alto, bruceresti le dimore celesti;

Verso il basso, la terra. A mezza altezza andrai sicurissimo.

E bada che le ruote non pieghino troppo a destra, verso il serpente contorto,

O non ti conducano troppo a sinistra, giù verso l'Altare.

Tieniti fra l'uno e l'altro. Per il resto mi affido alla Fortuna,

che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto tu sappia fare tu stesso.

Mentre parlo, la Notte umida ha toccato la meta, segnata sulle coste di Ponente.

Non ci è permesso indugiare, tocca a noi: l'Aurora, scacciate le tenebre, risplende.”

Fetonte salito sul cocchio lo fece partire, ma è troppo emozionato e ansioso di compiere la sua corsa sul carro del Sole e ascolta distratto e di tutti i suggerimenti paterni nemmeno uno fece in tempo a seguire, non appena i cancelli si aprirono. Infatti i cavalli (Eòo, Etone, Flegone, Piroide) si lanciarono all'impazzata, come ogni giorno, nel cielo immenso e subito si accorsero che l'auriga non era quello che conoscevano: il suo peso era leggero e le briglie non avevano la tensione e gli strappi a cui erano abituati. In un attimo il carro sobbalzò e sbandò. Fetonte fu preso dal panico e non sapeva come tenere i cavalli, così descrive Ovidio quella scena:

“ . . . Allora per la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa ,

la quale cercò, invano, di immergersi nel mare ad essa vietato

ed il serpente, che si trova vicino al polo glaciale

e che è la prima era intorpidito dal freddo non faceva paura nessuno

si riscaldò e a quel bollore fu preso da una furia mai vista.

Raccontano che anche tu disturbato fuggisti, Boote,

benché fossi lento ed impacciato dal carro tuo.

quando poi l'infelice Fetonte si volse a guardare dall'alto nel cielo

la terra che si stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidì,

e un improvviso sgomento gli fece tremare le ginocchia,

e in mezzo a tutto quello luce un velo di tenebra di cagliò sugli occhi.”

Fetonte era sconvolto, impotente in balia dei cavalli impazziti nella foga della corsa, si pentì di ciò che aveva desiderato e si maledisse per la sua sconsideratezza, ma ormai era troppo tardi. I cavalli lo trascinavano in una folle corsa nel fuoco, senza avere la minima idea di dove stessero andando e così si avventurarono prima troppo in alto, fino a costare contro le regioni più lontane, poi troppo in basso, vicinissime alla terra, che divenne tutto ad un tratto una trappola incandescente. Passando così vicino alla Terra tutto arse e dove c'erano grandi delle foreste si formarono dei grandi deserti e i grandi fiumi si prosciugarono. Quella traversata disastrosa avrebbe cambiato per sempre i connotati della madre terra dando a determinati tratti le sembianze che conosciamo oggi. Fu allora che il popolo degli etiopi per l'affluire del sangue a fior di pelle, dovuto all'eccessivo calore, divenne di colore nero e fu allora che la Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto e del Nilo non si trovarono più le sorgenti. Lo sconvolgimento non fu soltanto della geografia terrestre ma anche della gerarchia cosmica, che fu del tutto sovvertita, tanto che per la prima volta la luce del sole giunse là dove era proibito illuminare: il regno dei morti. Secondo Diodoro Siculo, quando Fetonte non fu più in grado di tenere le redini, il carro del Sole cambiò il percorso abituale e, prima di avvicinarsi pericolosamente alla terra attraversò i cieli incendiandoli e fu allora che tra gli astri si formò la Via Lattea. Superfluo è raccontare ciò che accade al mare e ai suoi pesci: l'acqua era in gran parte del evaporata e tutte le sue forme di vita, dalle piante agli uomini, stavano scomparendo per sempre, inghiottite dal fuoco e dal suo calore. Ma Gaia, questo era il nome della madre terra, questo non poteva subirlo e così in uno sforzo al limite delle sue energie implorò Giove affinché mettesse fine a quella maledizione e il re degli dei intervenne, questo è come ce lo racconta Ovidio:

“ . . . Allora il padre onnipotente (Giove) chiamati a testimone gli dei (compreso il sole, che aveva prestato il carro)

che tutto sarebbe perito di morte crudele se non interveniva,

salì in cima alla rocca da cui suole falcare sulla terra i banchi di nubi,

da cui fare rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori

. . . . . .

Tuonò e librato un fulmine all'altezza dell'orecchio destro,

lo lanciò contro il Cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita

e arrestando l'incendio con una spietata fiatata.

. . . . . . .

Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti,

precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia,

come a volte Una stella può sembrare che cada,

anche se non cade, giù dal cielo sereno.

finisce lontano dalla patria, in un'altra parte del mondo,

del grandissimo Po, che gli deterge il viso fumante. “

Viene narrato che oltre a Gaia o Gea e agli Dei, anche la madre di Fetonte pregò Zeus di porre fine a quel grande disastro cosmico e lui, Giove, prima che la terra fosse perduta non perse tempo, preparò una delle sue folgori e la scagliò contro il carro colpendo in pieno il giovane auriga. Fetonte precipitò in fiamme dal cielo, come una stella cadente e finì senza vita nelle acque dell' Eridano, già . . . proprio nel fiume Po. Le naiadi, le ninfe che presiedono tutte le acque dolci della terra con facoltà guaritrici e profetiche, gli diedero sepoltura e sulla sua tomba posero questo epitaffio:

"Hic situs est Phaethon, currus auriga paterni, quem si non tenuit, magnim tamen excidit ausis" "

Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre; e anche se non seppe guidarlo, egli cadde tuttavia tentando una grande impresa. Secondo gli studi degli antichi scritti sono stati individuati i probabili punti lungo l' Eridano, dove Fetonte potrebbe essere precipitato: uno si trova all'altezza dell'odierno Crespino (RO) un paese sulla sponda Veneta, dove sopravvive ancora questa leggenda e da cui nasce la denominazione della piazza principale. Inoltre Il comune di Crespino, in Provincia di Rovigo, ha come stemma lo scudo araldico che riproduce il mito di Fetonte. Un altro punto viene individuato non molto distante ma più a ovest, nel tratto del fiume in provincia di Ferrara, tra i borghi rivieraschi di Pontelagoscuro, l'antico Lago oscuro che richiama il luogo generato dalla caduta di Fetonte e Francolino dove troviamo una piazza intitolata a Fetonte. Questa localizzazione trova un riscontro nelle Argonautiche il poema epico in greco antico scritto da Apollonio Rodio nel III secolo a.C.. Unico poema di età ellenistica sopravvissuto, racconta delle avventure del principe Giasone e degli altri eroi salpati a bordo della nave Argo alla ricerca del vello d’oro, la pelle di un mitico ariete dorato, nascosto nella Colchide. La narrazione copre un arco di spazio e di tempo enorme, dalla partenza della nella Grecia orientale, fino alla conquista del vello, sulle sponde più ad est del Mar Nero, coprendo infine il viaggio di ritorno degli eroi, costretti a navigare all’interno del continente europeo. Passeranno per le sponde dell’Italia adriatica dove Eracle fondò la odierna Eraclea e risalirono la foce dell’EridanusFino dai tempi delle grandi migrazioni greche (circa 1500- 1000 a . C.) rappresentò l’unico passaggio commerciale alla pianura padana e all’Europa continentale, che fosse accessibile ai Greci, i quali erano fortemente interessati al commercio dell’ambra (elettro) erano infatti localizzate presso la foce dell'Eridano le isole Elettridi dove si faceva la raccolta dell'ambra tanto che in Grecia la migliore veniva chiamata “electrum eridanium”. La valle del Po era l’ultimo tratto dell'antica via dell’ambra, sacra al Sole, che correva dal Baltico al Mediterraneo. Risalendo il fiume Eridano passarono in un punto dove il fiume formava una zona paludosa e insalubre chiamata successivamente il lago oscuro. In quel luogo, raccontano, dove ancora giaceva il corpo fumante di Fetonte, i cui miasmi avvelenavano addirittura gli uccelli e da cui nacque l’espressione ‘fetido’ o ‘fetente’. Un altro accenno al mito dio Fetonte ci viene da un passo di Polibio, che ci dice che i primo abitatori delle zone ferraresi usavano un vestito nero in segno di lutto per la caduta di Fetonte. Ritenuto per certo che la veste abituale dei Greci era bianca, quando questi arrivarono vi sovrapposero il lutto e si ottennero i due colori (bianco e nero) da cui derivò la forma della balzana (scudo gotico diviso in due parti) che è l'antico stemma del Comune di Ferrara.

Fetonte, Eridano, le Eliadi e più in generale tutto l’episodio narrato dalle Metamorfosi rappresentavano un leitmotiv della corte Estense, una tematica ricorrente all’epoca del dominio ducale sul territorio. Numerose sono le opere realizzate in questo contesto che esaltano la padanità del racconto ovidiano con diversi tipi di rappresentazione. Il mito di Fetonte si lega agli Este fin dal 1242, anno in cui (secondo una cronaca di Ferrara) Azzo d’Este commissionò un dipinto che prevedeva come soggetto proprio la storia ovidiana, trattata ricollegandosi alla tradizione classica del mito e non a quella più moraleggiante in voga in quel periodo. Questa fu la tragica fine della breve vita di Fetonte che volle guidare il carro del sole, ma la storia non finisce qui, nonostante l'accaduto nessuno odiò mai quel ragazzo e sia il padre, che la madre, le sorelle e le Ninfe, le Eliadi, lo piansero a lungo ai bordi delle rive del fiume. In quella circostanza accade che le rive del Po si orlarono dei caratteristici pioppi che da allora lo accompagnano nel suo lungo il tragitto. Fino ad allora le rive erano spoglie, ma in quei giorni, mentre le sorelle si battevano il petto in un pianto ininterrotto, il loro corpi si trasformarono in alberi, dapprima i piedi e poi su fino ai capelli, che divennero verdi fronde. Alle Eliadi rimase solo la bocca per chiamare la madre e annunciarle l'inatteso prodigio; finché la corteccia non le privò per sempre anche della parola e allora dal legno fuoriuscirono lacrime. Giove allora trasformò quelle lacrime nella sostanza nuova, l'ambra, che al calore del sole s'indurì e cadendo nel fiume venne trasportata dalla corrente e nelle acque della foce del Po formarono alcune isole, dette "Elettridi". Le metamorfosi non risparmiarono altri personaggi convolti nella narrazione e si estesero anche ad un caro amico di Fetonte che, come le Eliadi, stava piangendo in riva al Po l'audace figlio del Sole.

Cicno, il re dei liguri, piangeva disperato la fine dell'amico Fetonte e invocò la pietà di Apollo perché placasse il suo dolore e il Dio lo trasformò in un meraviglioso uccello, mai esistito fino a quel momento: un cigno e lo dotò di una voce melodiosa.

Di fronte a una favola tanto coinvolgente l'arte non poteva mancare l'appuntamento, infatti la storia di Fetonte è stata celebrata da moltissimi artisti che, oltre ad avere una sostanziosa risorsa da cui attingere per manifestare il loro genio, ne approfittarono per esprimere attraverso l'arte a cose conduce la superbia umana, quando pretende di misurarsi con la potenza Divina. Un'altra interpretazione fu quella della rovina a cui andò incontro il giovane sprezzante che disdegnò i consigli di chi era più vecchio e aveva più esperienza di lui, in questo caso il padre Apollo. C'è chi vede nel mito di Fetonte la trasposizione di fenomeni meteorologici e astronomici o anche il ricordo collettivo di catastrofi naturali: Fetonte è il sole che ogni sera precipita nel mare a occidente rischiarando l'orizzonte con il bagliore di un incendio. Secondo gli storici e gli archeologi la leggenda andrebbe ambientata nella pianura del Po e sarebbe legata alla via dell'ambra, che dalla pianura Padana risaliva al Baltico.

Così la vicenda di Fetonte e delle sorelle Eliadi dalle lacrime di Ambra, si è caricata di riferimenti topografici, umani e folkloristici e ha conosciuto oltre allo sviluppo culturale anche la tradizione orale. La leggenda di Fetonte ha ispirato nell'antichità classica molti artisti con quadri, affreschi, mosaici, sculture e tante altre opere e divenendo, dal Medioevo, anche un elemento della simbologia funeraria, scegliendo questa leggenda per decorare le tombe delle vittime di incidenti. C'è chi ha colto il nesso tra il mito e la prospettiva platonica e stoica della distruzione ciclica della terra al termine di ogni periodo cosmico. Vario è l'atteggiamento dei poeti latini nei confronti di questo mito, da Lucrezio a Plinio il Vecchio i riferimenti alla leggenda di Fetonte sono frequenti e legati alla suggestiva grandiosità della vicenda; ma il mito assume anche un doppio simbolo: morale e personale. Fetonte è il figlio che si rivolta contro il padre o, più generalmente, è l'orgoglioso che vuole elevarsi troppo in alto e perciò è punito anche se, a giudizio di alcuni autori, questo suo coraggio è eroico e ammirevole. La lezione morale è indicata da Ovidio stesso:

“ . . . è un castigo, Fetonte, quello che tu invochi come favore.

Mostra più saggezza nei tuoi desideri.”

Ma poi l'ammirazione del poeta verso quel giovane che considera come un eroe viene espressa nell'epigrafe finale:

“ . . . qui giace Fetonte, che volle condurre il carro Paterno.

Se non fu capace di farlo, almeno morì vittima di una nobile audacia.”

La mitologia greca ha espresso magistralmente, attraverso figure universali come quella di Fetonte, come la presunzione e l’arroganza alla fine si ritorcano contro l’individuo e la società, da cui l'insegnamento che per possedere qual cosa di grande valore bisogna esserne degni. Noi qui vediamo le conseguenze di un desiderio incontrollato: Fetonte è più colpevole di Icaro, che non resiste al volo e sale fino ad avvicinarsi al sole che scioglierà la cera delle ali incollate: No. Fetonte vuole guidare il carro del Sole per dimostrare che è figlio del Sole, che è divino. Non è amore del cielo e del volo che lo anima e guida; è superbia da adolescente, come gli adolescenti che protetti dai genitori accusano gli insegnanti colpevoli di non capirli, e, addirittura, rimproverarli, cercando di orientarli al viaggio sulla terra, lasciando a chi ne è all’altezza quello nel cielo. Questo adolescente, e il suo padre cedevole per senso di colpa, che rinuncia al suo dovere di padre sentendosi un cattivo padre, mandano il mondo in rovina. Sarà la Terra, che è una donna, a recuperare, a salvare il pianeta, a riportare la vita.

17 gennaio 2024

Di cosa parliamo quando parliamo di agnosticismo?




 Di cosa parliamo quando parliamo di agnosticismo? significa fare i conti con le conseguenze di una tale scelta e assumere su di sé un impegno etico specifico. Quali sono, dunque, le conseguenze più immediate derivanti dall’assunzione di un tale atteggiamento? Per prima cosa, non è vero che essere agnostici significa automaticamente evitare di prendere posizione in modo netto. Anche un agnostico avrà le proprie convinzioni, ma a differenza di un credente o di un ateo, sarà più propenso a metterle in discussione, soprattutto quelle riguardanti le domande sul senso ultimo della vita. 

Un credente avrà sicuramente dei dubbi, ma se la fede che coltiva è sincera e profonda, il dubbio non farà altro che rafforzare le proprie speranze e fortificare il proprio rapporto col divino. Allo stesso modo, un ateo avrà sicuramente dei dubbi, ma se la sua convinzione è matura, il dubbio verrà considerato una conseguenza naturale, inestirpabile della ragione stessa e non come un vuoto da colmare postulando l’esistenza di una dimensione ultraterrena. L’agnostico, invece, non vede nel dubbio un mezzo per confermare le proprie convinzioni o per giungere, cartesianamente, a verità indubitabili, ma l’essenza stessa della realtà, un vero e proprio luogo da abitare e col quale fare i conti quotidianamente. 

 

Pertanto, l’agnostico vive costantemente la soglia, il limite come dimensione di senso e condizione di possibilità stessa della vita, tesa tra due limiti, appunto, oltre i quali la ragione non può spingersi

16 settembre 2023

Questa estate, spiaggia libera!

 


La creatura che tolleriamo al nostro fianco solo perché ha delle anatomie sollazzevoli ci sveglia alle sei. Invece di abbatterla con un cazzotto, come prima reazione istintiva, ci produciamo con un immenso sforzo, in un tanto melenso quanto falso:

 - Sì, amore -

Con ben tre ore di sonno addosso ci laviamo i denti col rasoio e pisciamo nell'armadio a muro. La morosa ci ridirige a ceffoni. Carichiamo zaini da trekking con creme presole, post sole, costumi di ricambio, frutta, panini, acqua, spray antizanzare, thermos, asciugamani, ombrellone e con 35 chili di stronzate inutili usciamo di casa. Il sole non è ancora sorto. 

Montiamo sull'ignobile cesso che la morosa voleva comprassimo, uno scooter a due posti che costa come un battaglione di ciao ed esiste solo nel nord Italia. "Praticissimo nel traffico" per due mesi l'anno, il resto è un inferno di intemperie, gelo e raffreddori. Solo il tre febbraio, mentre ogni minimo spiffero nella tuta è una lama d'orrore che ti criogenizza la pelle, comprendi quanto l'acquisto sia stato scaltro.

Si parte.

Attraversi strade deserte, sorpassi pezzi di motociclisti che i pompieri stanno ancora ricostruendo a bordo strada ascoltando in cuffia la musica di Tetris dopo che i centauri, esaltati dal rettilineo, hanno sfiorato i 200 prima di essere proiettati nella troposfera dai dissuasori. 

Arrivi, parcheggi. Togli l'abbigliamento da astronauta necessario a pilotare il cesso, indossi le infradito e arranchi nella sabbia. Ti accampi vista mare che il sole fa capolino. Tutto ciò che vuoi è rimetterti a dormire per dimenticare in quanti modi la vita riesce a violentarti, ma la ciccina di fianco flauta

 - No, tesoro, prima devi metterti la crema che ti scotti -. Ti lubrifichi come un bodybuilder.

 - Ora la metteresti a me? -

A quanto pare la tua ragazza è tetraplegica. Ti alzi. Per farlo sollevi un inspiegabile vortice di sabbia che ti si incolla addosso grazie alla crema precedentemente disposta. Oltrepassi la soglia della disperazione e vuoi solo dormire. Ti giri. Il tuo asciugamano si é ricoperto di sabbia, lo sbatti e il vento ti spalma addosso mezzo litorale. Provi a riposizionarlo. Arriva attorcigliato. Riprovi. È un origami di un cigno. Riprovi. E' padre Pio. Al quinto tentativo vorresti solo cacarci dentro e incendiarlo, ma la morosa si alza e ti aiuta deridendoti. Sei già sudato come una bestia. Crema solare, sudore e sabbia si mescolano ai tuoi peli ascellari creando una poltiglia abrasiva che ti scortica la pelle. Ti distendi. Chiudi gli occhi.

- Bagnetto! -  squittisce la femmina 

- Bagnetto! Bagnettobagnettobagnetto! -

Valuti se stordirla con un calcio a girare, ma rinunzi. Attraversi decine di metri di spiaggia arroventata saltellando come un orango, dopo sette secondi il dolore ti fa sballare e salti a pié pari sul bagnasciuga, atterrando sulla striscia di conchiglie non ancora abbastanza tritate che ti trafiggono le piante dei piedi. In una credibile interpretazione del lago degli ippopotami avanzi tra granchi morti, bottiglie di plastica, rifiuti d'ogni sorta, legno e colonie di tetano. Ridotto come eretico passato per la santa inquisizione entri in acqua. Lo sbalzo termico si fa via via piú orrendo fino ad arrivare ai testicoli, ove milioni di spermatozoi entrano in sonno criogenico.

- Allora, che aspetti? - 

Trilla lei, sguazzando felice - Hahaha! Non mi dirai che è fredda! Dai, buttati! -

Trattieni il fiato e salti in avanti. Il corpo si libera dal putridume oleoso per infilarti in un banco di alghe da cui emergi uso cecchino vietnamita. Sguazzi e il refrigerio ti fa star bene. Galleggi, chiudi gli occhi. Il benessere viene interrotto dalle grida stridule di lei-

 - MEDUSA! ODDIO CHE SCHIFO, UNA... NO, DUE... TRE! QUATTRO! Sono dappertutto! Portami a riva, ti prego! -

Ti carichi sulle spalle la poverina e attraversi un branco di meduse che ti ustionano caviglie, polpacci, pancia. Riattraversi l'inferno di magma sabbioso e la riporti sana e salva alla sua settimana enigmistica. Ti distendi. Chiudi gli occhi. Nell'aria risuona il grido di guerra del popolo: 

- DEEEEEEEENIIIIIIS - È pronunciato dal capo urukai, un'obesa quarantenne simile al gabibbo la cui massima aspirazione è apparire tra il pubblico di Uomini e donne. Sbraita il nome del suo putto. Guardi. Denis è un ragazzino di dieci anni che corre con un pallone.

- DEEEEEEEENIIIIIIIIS - ripete la femmina urlante - DEEEEEEEENIIIIIIIS -

Deve urlare il nome di suo figlio, deve emettere il nome stile radiofaro aeronautico, che va a mescolarsi ai vari LUCAAAAAA, MARCOOOOOO, CARLOTTAAAAAA creando una pregevole cacofonia uditiva.

Dalle retrovie appare il popolo della spiaggia. Famiglia cicciomostra con torma di cani che si avventano contro la torma dei cani di un'altra famiglia in un crescendo di ululati, guaiti, ringhi e latrati a cui si sommano le urla dei padroni che tentano di trattenere le bestie dal massacrarsi, ma è complesso giacché le mani sono occupate da mercanzie, neonati e ombrelloni.

- DEEEEEEEEENIIIIIIIS - procede la krapfendonna - DEEEEEENIIIIIIS -

Ti passano davanti tanga, topless e silicone in tutti i formati. Le guardi per un secondo di troppo e la tua dolce metà sibila

  -Ah! E' così che ti piacciono? -

Valuti se sopprimerla, poi passi i successivi venti minuti a sproloquiare cazzate a cui non crede neanche lei ma che quietano il bagaglio di insicurezze che si porta dietro.

- DEEEEEEEENIIIIIIIS - grida il parabordi umano - DEEEEEEEEENIIIIIIIIS -

Una vecchia si toglie il vestito e non capisci se ha il reggiseno o le ginocchiere. Arrivano in successione: massaggiatori cinesi, venditori romeni, venditori africani, zingari elemosinanti, sei cani che ti annusano e uno che tenta di pisciarti sullo zaino tra le risate estasiate dei padroni. Quest'anno il telegiornale ha già segnalato nei vari servizi  una  crescita esponenziale di furti in spiaggia seguita da accoltellamenti seriali di vigili, bagnini, gestori e stewart che cercano di allontanare gli abusivi, quindi per fare il bagno tocca fare a turno o al ritorno non trovi neanche la sabbia.

Inizi tu. L'acqua ora è tiepida, grazie alle vesciche di tutti i presenti. Chiedi permesso e ti fai spazio per raggiungere un fondale accettabile, oltrepassi la barriera di materassini galleggianti a forma di orca, coccodrillo, banana, papera. Schivi il canneto di boccagli da cui eruttano scatarrate e sei finalmente libero. T'immergi, chiudi gli occhi, riemergi.

Gorgogliando bestemmie ritorni a riva e percorri il litorale in cerca della tua dolce metà facendoti largo. Ti sfiorano discorsi su Berlusconi, immigrazione, reddito di cittadinanza, uscita dall'euro, Travaglio, Guzzanti, Beppe in Internet ha detto che. Fendi orde di rabdomanti che agitano al Dio sole iPad, iPhone, tablet e portatili supplicando un segnale wifi decente con cui postare sui social le foto delle loro gambe. Calpesti un castello di sabbia. Il dolore è assoluto e totale. Guardi. C'era un pezzo di cemento armato dentro.

- DEEEEEEENIIIIIIIS -

Ponderando l'idea che tutto sommato Unabomber aveva le sue ragioni, raggiungi la partner semi ustionata all'ora di pranzo. Dopo aver sbranato le provviste ti metti in coda per un caffè al baracchino.

- Quant'é due caffé?- 

- Dieci euro! -

Scontrino pre-battuto di un euro. Alzi gli occhi, c'è il logo della Lega tra le bottiglie di Aperol. Accerchiato da cani urlanti, bambini schizoidi e genitori isterici sorseggi il tuo goccio di lava, fumi la sigaretta e torni al tuo posto, trovandolo occupato da un gruppo di vecchi che ha costruito una specie di tenda da tornei medioevali. Noti solo in quel momento che dalla sabbia spunta una siringa intramuscolo senza ago.

- Sai . . . - inizia pacata la tua ragazza  - Forse non mi piace tanto, la spiaggia libera -

Rimanete immobili, consapevoli che quando una donna osa ammettere la remota possibilità di errore un vostro qualsiasi movimento facciale la farebbe esplodere come Semtex.

- Perchéééééé . . . ?- 

Domandate, candidamente melliflui. Una madre appoggia il neonato su un tavolino del bar e schiude il pannolino, rivelando uno tsunami di merda.

-Bè, c'è un po' troppa gente -

- Diciiiiiii . . .? -

Un tizio finisce la sigaretta e getta il mozzicone sulle mattonelle. La spegne col piede scalzo. Lancia un urlo e saltella tenendosi il piede. E' così facile riconoscere gli elettori di Beppe, qui.

- Cioè, alla fine abbiamo risparmiato cinquanta euro di ombrellone -

Annuite. In effetti l'anno scorso stavate in una spiaggia semideserta con un'amica di nome Maria e la giornata è finita a fare l’amore sbronzi tra le dune con falò e dormita in tenda. Perché ripetere l'errore? dai, in spiaggia privata ci vanno solo gli snob. In coda al ritorno ascoltate senza fiatare i motivi per cui lei ha scelto di venire qui, meglio comunque della vostra decisione di spendere anche folli somme per uno sdraio e un ombrellone.

- Ma per curiosità....!? - osate  - La Maria dov'è andata? -

Litigata di gelosia fino a casa.

Ciao Professore

 


A ricordare la scomparsa del professor Claudio Rapezzi, già direttore della Cardiologia del Policlinico Sant'Orsola -Malpighi di Bologna e professore Unibo e Uni Fe


Il saluto dei colleghi.


Claudio

Tra le voci che girano attorno a un genio prima o poi arriva quella che sia morto. E’ ovviamente una notizia infondata. Certe persone non muoiono mai, o meglio, non lo fanno nel senso che crediamo.

Claudio Rapezzi ha abbracciato tutta la cardiologia, iniziando con i piccoli cardiopatici congeniti per finire con adulti dal cuore troppo grande, per geni sbagliati e scorie del tempo. Poteva dissertare di dislipidemie, cardiomiopatie, coronarie e aritmie senza apparente fatica. Sollevava allo stesso modo uno stetoscopio e una Tac. Guardando per pochi secondi un elettrocardiogramma, Rapezzi poteva scrivere la cartella clinica di un malato mai visto, dalla diagnosi alla prognosi (avrà mai guardato il proprio Ecg?).

Chi di noi ha avuto il privilegio di conoscerlo ha provato i momenti Rapezzi. Sono quegli attimi in cui tu sei seduto davanti a un uomo che racconta diapositive. Ti accorgi subito che non è semplicemente bravo: c’è qualcosa di soprannaturale in quella capacità di sintesi, nelle associazioni fulminanti, nei lampi di intelligenza verticale e di affilatissima ironia. E’ in quei momenti che provi ad accendere tutti i neuroni specchio che hai, e per un attimo ti illudi che funzioni. Mai però quanto vorresti, e tra l’ammirazione serpeggia un filo di invidia, quasi rabbia impotente. Per dirla col tennis, Rapezzi era ingiocabile. Per questo è un Maestro, ti fa godere e ti ispira, vicino e inarrivabile.

Tutte le morti sono premature, alcune più di altre. Claudio Rapezzi era curioso e impertinente come un bambino e aveva accumulato una mole enorme di pubblicazioni e conferenze senza uscire dall’incubatrice. Da quella grande casa di vetro Il piccolo Claudio continua a gridarci di essere curiosi come lui, come deve esserlo un buon dottore.

Un altro malizioso pettegolezzo su Claudio era che non avesse figli, anche questo infondato. Infatti, c’è in giro per il mondo una sua progenie di cardiologi, dall’epigono inconsapevole all’ingenuo scimmiottatore, passando per allievi indebitati fino al collo, felici. Lui lo sapeva. Per questo era molto gentile con chi, al termine delle sue presentazioni, gli chiedeva le diapositive. Nella generosità di quel gesto seminale, provava la tenerezza di un Federer che regala la racchetta a un bambino.

La peggior disgrazia che possa capitare a un genio è quella di essere compreso. E’ forse per questo che Il professor Rapezzi ha speso gli ultimi suoi anni accademici non a Bologna, ma presso l’università di Ferrara (con tutto il rispetto per la città di Bassani, Antonioni e tanta brava gente studiosa e operosa).

Si dice addirittura che Claudio fosse appena andato in pensione. Che parola brutta e irriguardosa. Non si va in pensione, semplicemente si smette di giocare per i punti. Federer l’ha appena fatto, salutando la carriera e tutti noi in doppio con Nadal. Perché allora Rapezzi non ci ha chiamato? Avremmo potuto tirare slice e slide e poi finire a piangere dopo la partita, senza nemmeno troppo coprirci con un asciugamano, senza vergognarci, proprio come fanno i bambini quando la mamma li chiama in casa che sta facendo buio.

Sai Claudio, crediamo di sapere dove ti sei nascosto. Sei in quello sgabuzzino del settimo piano del padiglione 21, la cardiologia del professor Bruno Magnani. Abbiamo ragione di credere che tu sia chiuso lì dentro con Gabriele Cristiani per fare la diapo perfetta. L’ultima. Fai pure con calma e quando hai finito mandacela per favore. La nasconderemo tra le nostre mostrandola alla prima occasione.

15 settembre 2023

L'ULTIMO RE

 

Il ricordo che oggi rimane di Umberto II, il "re di maggio" ultimo sovrano d'Italia, è offuscato dal complesso periodo storico in cui visse ed intriso di profonde malinconie.

Descritto come il migliore fra i Savoia re d'Italia, Umberto non ebbe mai il tempo per divenire protagonista della storia e pagò per tutti le colpe della sua dinastia, su tutte quelle del padre, Vittorio Emanuele III, che nei suoi riguardi nutrì sempre sentimenti contrastanti, tra l'ammirazione per la sua popolarità e la totale sfiducia, cedendogli il trono solamente quando non si poteva fare altrimenti, tragicamente tardi per poter salvare la monarchia.

Eppure, se al referendum del 2 giugno 1946 la repubblica vinse solo con una sottile maggioranza, per un risultato di gran lunga superiore alle previsioni del sovrano, Umberto dovette evidentemente avere qualche merito. Si deve poi considerare l'emotività di quel voto, a guerra appena conclusa, quando nella coscienza popolare erano ancora ben impressi gli errori di Vittorio Emanuele, vale a dire la fuga da Roma e l'incapacità di opporsi al regime di Benito Mussolini.

Quasi tutti erano concordi nel ritenere Umberto migliore di suo padre; Montanelli votò per tale ragione a favore della monarchia, conoscendo di persona il sovrano e provando nei suoi confronti una stima sincera, ma soprattutto si schierò nel referendum a favore di quell'istituzione che aveva creato l'Italia; De Gasperi, infine, considerava Umberto una bravissima persona.

Amabile, elegante nei modi, rispettoso e ligio al proprio dovere, il "re gentiluomo" mise sempre da parte i propri interessi personali a favore del bene del nostro paese, preferendo la triste via dell'esilio in Portogallo, dove visse dal 1946 sino alla morte, avvenuta nel 1983, piuttosto di un'inutile guerra civile che avrebbe causato ulteriori danni a seguito degli eventi già così drammatici del secondo grande conflitto mondiale. Questa decisione non scontata, che aprì ad un periodo di pace e di ricrescita, non va dimenticata.

La partenza da Roma, a seguito dei risultati del referendum istituzionale, avvenne in un'atmosfera surreale, sotto un cielo grigio che minacciava temporale.

Era il pomeriggio del 13 giugno 1946 e l'immagine affascinante del principe ereditario che aveva rapito il cuore di ogni giovane donna lasciava spazio ad un re segnato dal fardello della storia e dalle decisioni così difficili da prendere in quei pochi giorni di fine primavera, momenti che segnavano l'epilogo di una lunga pagina di storia nazionale, ma se si vuole anche di novecento anni di dinastia. Come doveva essere difficile accettare un così amaro destino mentre all'aeroporto di Ciampino un aereo lo attendeva per raggiungere Lisbona. Umberto indossava un dimesso abito grigio con la cravatta nera a lutto dell'Italia, che porterà durante tutto l'esilio. Con il volto segnato dalle rughe, il viso pallido e tirato, riuscì ad abbozzare un sorriso poco prima di partire per un viaggio che non lo avrebbe mai più riportato nell'amata patria.

Umberto nacque la sera del 15 settembre 1904 nel castello di Racconigi, un borgo contadino a metà strada fra Torino e Cuneo, nel periodo della cosiddetta "età giolittiana", quando il protagonista della politica italiana era il piemontese Giovanni Giolitti.

Mite, dolce e sensibile, il futuro sovrano fu costretto alla ferrea disciplina militare impartitagli a villa Savoia da numerosi precettori per volontà di Vittorio Emanuele, che si pose sempre nei confronti del figlio non come padre, bensì come re, con severità e distacco.

Del rapporto tra Umberto e suo padre durante l'infanzia rimane solo una foto, probabilmente la più affettuosa, che ritrae un attimo di tranquillità familiare, sebbene Vittorio Emanuele non nascondi sotto il cappello un'espressione tesa e quasi insofferente a causa di quella posa forzata. Un'intervista del periodo dell'esilio ci narra di quei ricordi legati alla giovinezza.

La madre Elena del Montenegro, da cui prese le morbide fattezze, gli occhi neri e l'altezza, ma soprattutto la bontà e un profondo spirito di sacrificio, era invece una figura rasserenante e comprensiva, capace di donare al primogenito l'amorevolezza e la dolcezza di cui aveva bisogno. Ella aveva adottato gli stessi modi semplici anche nel suo ruolo di regina, al contrario di quelli solenni di Margherita di Savoia, moglie di Umberto I

Galante e raffinato, vestito sempre in modo impeccabile e alla moda, i capelli scuri ben pettinati, la barba rasa perfettamente per evidenziare i dolci lineamenti, Umberto era un uomo che incarnava lo speranzoso futuro di una nazione, mentre Vittorio Emanuele era ormai un vecchio re sfiduciato e oppresso sin da ragazzo da complessi di inferiorità dovuti alla sua statura, condizionata dall'unione tra Umberto I e la regina Margherita, cugini di primo grado.

La popolarità del figlio era forse invidiata dal padre, orgoglioso e testardo al punto da tenere sino all'ultimo il potere come a voler dimostrare che solamente lui era in grado di governare, anche quando all'estero si faceva ormai maggiore affidamento su Umberto piuttosto che sul sovrano.

Vittorio Emanuele non si curava di quello che si diceva su di lui e sulla sua famiglia, fermo nella convinzione che "in casa Savoia, si regna uno alla volta". Cinico sino a disprezzare tutti, dubbioso sulle capacità politiche del figlio, il re non gradiva nemmeno l'attivismo politico della nuora Maria José, donna di cultura in contatto con i politici e gli intellettuali antifascisti.

Umberto e la principessa Maria José del Belgio si sposarono l'8 gennaio dell'anno 1930 nella cappella Paolina del Quirinale, in una vera e propria sontuosa cerimonia regale alla quale partecipò buona parte dell'aristocrazia internazionale, tra cui, oltre ai membri di casa Savoia e del ramo cadetto Aosta, il re Alberto I del Belgio con la famiglia della sposa al completo, a cominciare dal futuro Leopoldo III come testimone di sua sorella Maria José; vi erano poi re Boris di Bulgaria che poco dopo sposerà una sorella di Umberto, le sorelle della regina Elena, infine il duca di York, che nel 1936 salirà al trono inglese con il nome di Giorgio VI. I coniugi, al termine della funzione religiosa, furono ricevuti in Vaticano da papa Pio XI, segnale di una progressiva riconciliazione fra l'Italia e il Vaticano ad un anno dai Patti Lateranensi. La visita riempì di gioia il principe Umberto, molto credente a differenza di suo padre.

Umberto, la cui infanzia era stata repressa nel rigore militare e nella severa educazione, visse il matrimonio come un'imposizione che ostacolava il suo complesso percorso di crescita e di ricerca di una propria dimensione. Come detto però, i due coniugi apparirono sempre uniti agli occhi del popolo ed insieme ebbero tre figlie femmine e l'erede maschio Vittorio Emanuele.

Il regno di Umberto non è da considerarsi solamente nel breve periodo, poco più di un mese, intercorso fra l'abdicazione di Vittorio Emanuele III, avvenuta il 9 maggio del 1946, sino alla partenza per l'esilio il 13 giugno successivo, dunque come l'ultimo dei Savoia o come una sorta di Luigi XVI finito, anziché sulla ghigliottina, lontano dalla patria in completa solitudine. Bisogna invece porre l'attenzione ai due anni che seguono la decisione del padre di cedergli i poteri come Luogotenente del regno, ma anche al suo ruolo di principe ereditario.
Interessante è analizzare, oltre a capire se vi fu veramente, il sentimento di antifascismo da parte di Umberto, certamente distante nei modi e nell'ideologia dal duce, ma allo stesso tempo impossibilitato a prendere posizioni nettamente in opposizione al padre, il quale, sebbene controvoglia, aveva avvallato il regime e accettato la diarchia.
Umberto, che non aveva mai nutrito entusiasmo per il fascismo, sembrò adeguarsi come la maggior parte degli italiani e degli uomini di potere a quello che si rivelò la rovina del paese; chiaramente bisogna tenere però in considerazione la sua posizione di rilievo, che gli avrebbe permesso di opporsi, ed in questo caso la mancata azione concreta risalta con maggiore evidenza.
Come sempre Umberto fu vittima di quell'assoluto rispetto per suo padre, al quale doveva obbedienza non solo come genitore ma anche come re, che per tutta la vita non gli permise di compiere delle scelte. La volontà da parte di Vittorio Emanuele di tenere lontano il figlio dalla vicende politiche è inoltre interpretabile, oltre che come una mancanza di fiducia, come la scelta di non coinvolgere la monarchia in un rapporto troppo stretto con il regime, distinguendo quindi la propria posizione politica, ormai compromessa, da quella dell'erede.

Non riuscendo ad imporsi e a prendere convinte decisioni, Vittorio Emanuele vedrà concludersi il proprio regno nel peggiore dei modi, consapevole di non essere stato in grado di evitare al paese le atrocità della guerra, di essersi arreso con troppa facilità alla follia dei due dittatori. Assisterà da lontano, costretto all'esilio, alla fine del regno sabaudo.

Quando ormai era troppo tardi, il 25 luglio 1943, a conflitto ormai perso e a seguito del bombardamento di San Lorenzo, il re, ricordandosi dei sui poteri, fece arrestare Mussolini, affidando il ruolo di capo del governo al maresciallo dell'esercito Pietro Badoglio.

L'8 settembre venne firmato l'armistizio, con il re che a questo punto rischiava di finire catturato dai tedeschi. Si decise allora per la fuga, un gesto certamente non oneroso che lasciava la capitale al proprio destino, nella più assoluta anarchia. Il monarca, nell'estremo tentativo di dare continuità allo Stato e difendere gli ideali unitari, decise di trasferirsi al sud, in territorio non invaso da tedeschi o Alleati, temendo per l'incolumità della famiglia reale e al fine di evitare che il paese fosse rappresentato unicamente dalla mussoliniana repubblica di Salò.

L'ultima sera prima della partenza, al Quirinale, in una situazione irreale, vi erano solamente Vittorio Emanuele, la regina Elena e loro figlio Umberto, che obbedì a suo padre pur essendo intenzionato a restare a Roma. In cuor suo il principe si sentiva in dovere di rimanere nella capitale, difendendola anche a costo della vita. Il coraggio non gli mancava, ma era incapace di disobbedire. La madre lo supplicò di partire, Vittorio Emanuele glielo ordinò. Forse quel gesto avrebbe avuto, qualche anno più tardi, la sua ricompensa.

Ancora una volta Umberto dovette sottomettersi alla volontà di Vittorio Emanuele, non essendo il suo momento per regnare. Eppure quella notte fece di tutto per seguire le proprie convinzioni, continuando, anche mentre le automobili lasciavano Roma verso Pescara, a supplicare inutilmente il padre, finendo per essere rimproverato duramente anche da Badoglio. Rassegnato, quasi in lacrime, Umberto ripeteva: "Mio Dio, che figura!". Nemmeno a distanza di molti anni, durante l'esilio, si permise però di parlare male del padre e della sua scelta.

A seguito della liberazione di Roma, dopo che Vittorio Emanuele aveva firmato l'atto di luogotenenza col quale trasferiva i poteri al figlio, Umberto poté finalmente fare ritorno nella capitale.

Ufficialmente sul trono vi era ancora Vittorio Emanuele, ostinato a mantenere il potere proprio fino alla fine, incapace di farsi da parte nonostante durante la giovinezza avesse cercato di evitare di dover assumere quel ruolo, per poi farsi carico di ogni responsabilità con il regicidio di suo padre.

Nella posizione che occupava, Umberto era ancora molto legato all'obbedienza e impossibilitato a muoversi liberamente e con decisione, tuttavia il suo atteggiamento nei due anni di luogotenenza dimostrò una spiccata intelligenza, ponendosi in ascolto di ogni diversa visione e con spirito di collaborazione, favorendo le condizioni di pace ad un paese che nel 1944-45 di tutto aveva bisogno fuorché ulteriori scontri.

Significativo fu il suo primo atto politico, avvenuto quando Badoglio diede le dimissioni. Umberto provò ad affidargli nuovamente l'incarico di formare un nuovo governo, trovando però un clima di sfiducia da parte dei partiti di sinistra, che vedevano nel maresciallo un rappresentante del passato.

Umberto sapeva che la riconferma di Badoglio avrebbe trovato il sostegno, a livello internazionale, del Primo ministro britannico Winston Churchill, conservatore puro e quindi difensore della monarchia, allo stesso tempo era però a conoscenza dell'unanimità dei partiti antifascisti nel ritenere opportuno un radicale cambiamento. Decise così di affidare l'incarico a Ivanoe Bonomi.

Ulteriore segnale di distacco dal passato fu la nomina del marchese Falcone Lucifero a ministro della Real Casa, un uomo che era stato vicino a Matteotti e che si allontanò dalla politica con l'ascesa del fascismo.

Quando si era ormai in prossimità del referendum istituzionale, nel pomeriggio del 9 maggio 1946, Vittorio Emanuele III si decise ad abdicare in favore del figlio, cercando vanamente di salvare la monarchia.

La cerimonia, che si svolse presso villa Maria Pia a Posillipo, fu breve e triste, intrisa di malinconia e profondi rimpianti, con l'anziano sovrano che appariva sereno, sforzandosi però nel trattenere una forte commozione evidenziata dal tono della voce con cui leggeva la formula di abdicazione. Vittorio Emanuele e la moglie Elena si preparavano a partire per l'esilio in Egitto, ospiti di re Faruk; Umberto diventava, tardivamente, re d'Italia.

Umberto si recava così a visitare diverse città italiane, da solo, senza la moglie che ancor meno di lui credeva in una vittoria al referendum. Al sud veniva accolto con entusiasmo e calore, da folle che lo acclamavano sentendosi ancora legate alla dinastia e in particolare alla sua persona. Al nord era insultato, coperto di ingiurie e provocazioni, tuttavia il sovrano non perse mai la calma e la sua infinita compostezza. Appariva però stanco e prostrato dalla tensione, precocemente invecchiato. Fu un gentiluomo sfortunato che pagò colpe non sue, assistendo inevitabilmente, il 2 giugno, alla più dolorosa delle sconfitte.

Il suo merito più grande fu quello di accettare con correttezza e signorilità il risultato, contribuendo a scongiurare disordini, scontri e una possibile guerra civile, non ascoltando chi gli consigliava di recarsi a Napoli dove la monarchia era forte.

L'esito della votazione si rivelò superiore alle aspettative, con il paese diviso nettamente in due, il nord repubblicano, che ottenne 12.717.923 voti, contro il sud monarchico fermo a 10.719.284. Inizialmente sembrò addirittura che avesse vinto la monarchia, sino a quando non arrivarono, copiosi, i voti delle regioni del nord Italia. Si parlò di brogli, di possibili falsificazioni, ed ancora oggi i dubbi sulla correttezza di quel verdetto non sono risolti, ma Umberto non sollevò alcuna polemica, lasciando il paese senza proteste.

Cominciò così il lungo esilio in Portogallo, presso villa Italia a Cascais, dove trascorreva molto tempo sulla spiaggia, contemplando l'Atlantico, in preda a insanabili nostalgie. Nel suo testamento espresse la volontà di donare la reliquia della Sacra Sindone, di proprietà di casa Savoia, al pontefice.

Si spense il 18 marzo 1983 in un ospedale di Ginevra a seguito di una lunghissima agonia, sussurrando negli ultimi istanti, all'infermiera che gli teneva la mano, la parola "Italia".

09 giugno 2023

FETONTE, STORIA DI UN MITO

 


La mitologia greca è l’insieme dei miti e delle leggende legati alla cultura dell’antica Grecia. I racconti alla base della mitologia greca nascono tra il IX e l’VIII secolo avanti Cristo e In origine sono trasmessi per via orale, successivamente vengono raccolti, ampliati e messi per iscritto.

La mitologia greca non racconta solo storie di divinità, ma anche di uomini, spesso protagonisti di vicende tragiche, alcuni racconti della mitologia greca sono metafore di eventi storici.

In generale, il mondo della mitologia riflette la natura e la società degli uomini. Gli Dei hanno vizi e difetti tipici dei mortali: sono gelosi, vendicativi, spesso accecati dalla passione.

Parleremo di un mito che ha interessato con le sue vicende questo nostro territorio , parleremo di Fetonte, nato da un dio dell’olimpo, ha attraversato il cielo, ed è morto cadendo sulla terra.

Tante sono state le versioni del mito di Fetonte raccontate diversi autori prima greci e poi latini, noi ci affidiamo a quella descritta dallo scrittore latino Publio Ovidio Nasone nelle sue “Metamorfosi” terminate nell’ottavo secolo d. c. (periodo augusteo) dove, in 11.995 versi, ci ha trasmesso le più celebri storie della mitologia greco-romana descrivendo 250 personaggi mitologici.

Incominciamo con l’individuare il luogo dove avvenne l’epilogo della storia e dove trovò la morte fetonte che è molto vicino a noi.

Il Po è il più lungo fiume d'Italia ma ha uno dei nomi più corti, due sono le lettere per una sola sillaba, ma al breve nome però corrisponde una lunga storia.

Partiamo dal nome greco Heridanos che è anche il nome di una costellazione che ha inizio dalla stella di Orione e si sviluppa da nord a sud e osservandola ci ricorda il corso di un fiume con le sue ansie.

Torniamo sulla terra, anzi nell'acqua del nostro fiume, non tutte le fonti storiche e mitologiche ricollegano l' Eridano al Po, per alcuni coincideva con il Nilo, per altri con il Rodano, Virgilio nell'Eneide lo cita come uno dei fiumi degli Inferi, ma la maggior parte degli storici ricollegano l' Eridano al Po.

Ma Cosa significa la parola Eridano? In greco significa fiume del sole, della luce o del fuoco, infatti si compone di Ero che si intende come luce, fuoco, sole e Danos che significa fiume.

Se per i greci era l' Eridano per i Liguri la popolazione che abitava quella che allora era la Pianura Padana era il Bodinco o Bodenco dove il sostantivo Bod significa mare, lago, laguna o pantano,  inco o enco sta per fiume, quindi Bodenco sarebbe il fiume-mare o il fiume-palude.

Deduzione confermata dalla conformazione geofisica del Po in epoche antiche, infatti il tratto finale del fiume era differente dall'attuale perché si dirigeva nell'Adriatico attraverso una grande estensione di paludi.

Padus è invece il nome romano del nostro fiume secondo alcuni il nome Padus deriverebbe dai numerosi alberi di pino che all'epoca costeggiavano il corso fluviale, e da Padus deriva poi Padana, il nome della pianura dove noi ci troviamo .

E vediamo adesso il nostro protagonista: Fetonte. 

Questo giovane personaggio della mitologia greca che da sempre ha incuriosito poeti e scrittori, Fetonte un dio caduto sulla terra la cui storia è piena di fascino come una tragedia greca e stimolante come un giallo.

Ma qual è la storia di Fetonte: dunque, si narra che fosse il giovane figlio maschio del dio Febo Elios, che era conosciuto anche come Apollo ed era il Dio del sole.

Apollo l'infaticabile pilota di un carro che produceva luce e energia, tirato da cavalli vomitanti fuoco col quale compiva viaggi quotidiani e aveva una forza definita divina e paragonabile a quella del sole e con il sole veniva identificato.

Febo Elio e aveva avuto vari figli e figlie ma il prediletto era il giovane maschio avuto dalla ninfa Climene.

Tutto ebbe inizio in Etiopia, in un tempo leggendario in cui gli abitanti erano bianchi di pelle e i loro sovrani erano il re Merope e la regina Oceanina Climene, la ninfa figlia di Oceano. Accadde il giorno i cui il dio Apollo fermò in quel luogo il carro durante una sua traversata quotidiana del cielo, da est a ovest, per dare luce alla Terra.

Il dio si imbatté nella straordinaria bellezza della regina Climene e improvvisamente si accorse che di lei non poteva fare meno e desiderò amarla.

Anche la regina rimase rapita al cospetto del dio il cui nome Febo significa appunto “lo splendente” e che tale era non solo in virtù del sole che trasportava sul suo famoso carro, ma anche perché era il dio della poesia e della musica, il Dio nel cui aspetto e nelle cui indicazioni si incarnava il sublime.

Fu così che Apollo e la regina etiope si amarono e dal loro amore nacquero le Eliadi cioè le figlie di Elio (come era anche chiamato Apollo) e Fetonte.

Un precedente significativo mette in guardia fetonte su quanto potrà succedergli infatti, purché meno nota nel mito, è l'opera di Nonno di Panopoli che racconta la vita di Fetonte prima dell'episodio del carro solare e dove, ancora infante e giocando con Oceano, fu lanciato più volte in cielo ed in seguito ripreso e fino a quando il bambino non evitò la mano di Oceano per cadere nelle acque scure a mo' di presagio della sua futura fine.

Comunque, Fetonte crebbe lontano dal padre Apollo, era un figlio illegittimo e fu cresciuto in Etiopia dalla madre e dal re Merope che lo aveva adottato e lì aveva come amico Epafo, anch'egli figlio illegittimo di un dio, e che dio!

Epafo era nato dall'unione della dea Iside con Giove, il re degli dei, e fu proprio a causa di un chiacchiericcio di questo coetaneo che partì la scintilla che avrebbe scatenato un putiferio.

L'amico Infatti tacciò Fetonte di ingenuità e presunzione per la sua ostentazione di essere figlio di un Dio che in realtà non aveva mai visto e che di più sosteneva addirittura di essere figlio del magnifico Apollo:

sciocco tu credi a tutto quello che ti dice tua madre,

e vai in trionfo di un padre immaginario. “

Chiunque a proposito di un tema così importante, come quello delle origini personali, non tollererebbe mai un simile affronto e desidererebbe dimostrare a tutti e con qualsiasi mezzo, la propria identità.

Così infatti intese fare Fetonte che corso dalla madre e in preda a rabbia mista a disperazione, la supplicò di dargli le prove e la certezza di essere figlio di un Dio, del dio Elio, e scrive nelle sue Metamorfosi, Ovidio:

Climene, non si sa se spinta più dalle preghiere del figlio

o dall'ira per essere stata messa sotto accusa

per questo fulgore splendido di raggi balenanti ,che ci vede e ci ode

Io ti giuro, o figlio, che tu sei nato da questo sole che ti sta di fronte,

da questo sole che regolano la vita sulla terra.

Se quel che dico e menzogna, mai più egli mi consenta di guardarlo

e sia questo per i miei occhi l'ultimo giorno. levò al cielo tutte e due le braccia e guardando dritto verso il sole e esclamò:

Del resto, non ti ci vorrà molto a trovare la casa di tuo padre.

Il luogo dove dimora, e da dove sorge, è vicino alla nostra regione.

Se così ti aggrada, vai, e informati da lui direttamente.”

A tali parole Fetonte non indugiò e, con il cuore ansioso per l'imminente incontro col padre ancora sconosciuto, si mise in viaggio verso l'oriente fino a che, oltrepassata l'india, giunse finalmente alle porte della colossale e altissima residenza di Apollo: un palazzo interamente rivestito d'oro.

Fetonte venne condotto il cospetto del Dio ma non poté avvicinarsi più di quel tanto per via della luce accecante che il padre sprigionava.

Ecco come si presentò la scena a Fetonte:

il sole sedeva, avvolto in un manto purpureo

su un trono scintillante di fulgidi smeraldi.

A destra e sinistra stavano il Giorno e il Mese e l'Anno,

e i Secoli, e le Ore disposte a uguale distanza una dall'altra;

stava la Primavera Incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda,

che portava ghirlande e spighe, e stava L'autunno

imbrattato di uva calpestata, e l'inverno ghiaccio,

con capelli irrigiditi.”

Apollo era fiero di essere il padre di Fetonte, il ragazzo era il simbolo dell'amore che lo univa a Climene e non gli avrebbe negato nulla pur di tranquillizzarlo in merito alla sua discendenza.

Il giovane però voleva una prova dal padre, un segno incontrovertibile, un solo desiderio: essere lui, per un giorno, a dare la luce agli uomini guidando il carro del sole.

Tutto si sarebbe aspettato Apollo, fuorché una richiesta del genere, tanto inequivocabile, quanto sconsiderata. Cosa fare?

Accontentare il figlio per far fede alla promessa fattagli o rifiutarsi il nome della saggezza che la lunga esperienza gli conferiva?

Più volte tentò Apollo di dissuadere il figlio, illustrandogli quanto la traversata fosse in realtà una quotidiana impresa che lui, soltanto lui, poteva compiere e comunque non senza fatica: lui, soltanto lui, nemmeno Giove Il re degli Dei avrebbe saputo farlo.

Mantenere la giusta traiettoria era compito delicatissimo: la furia dei quattro cavalli che trainavano il cocchio richiedeva una mano forte e salda che li sapesse domare; vi erano poi delle costellazioni minacciose come il Toro, il Leone, il Granchio che bisognava saper “prendere” per non scatenarne l'ira; ed era importantissimo approdare a Occidente dopo aver eseguito tutto secondo le regole quando il giorno volgeva al termine, perché sia alla terra che al cielo occorreva dare il giusto calore. In una parola, non ci si poteva permettere di sbagliare.

Ma gli avvertimenti furono del tutto inutili: Fetonte non ne voleva sapere e più Apollo tentava di persuaderlo, più il ragazzo dubitava di avere discendenza divina.

Fin quando, Apollo, davanti a quegli occhi ancora una volta volta lucidi di rabbia e amarezza si arrese e, pur con grande preoccupazione, assecondò il figlio.

Era nel frattempo giunta l'ora di sorgere, e così ne scrive Ovidio:

. . allora il padre spalmò con un sacro medicamento sul volto del figlio,

perché tollerasse le vampe voraci, gli pose sulla chioma i raggi,

e di nuovo e mettendo sospiri d'ansia dal petto, presagendo sventura, disse:

-Se puoi seguire almeno questi consigli di tuo padre,

evita ragazzo mio, di spronare e serviti piuttosto delle briglie.

Già tendono a correre di suo: è difficile e frenare la loro foga.

E cerca di non tagliare direttamente le cinque zone del Cielo.

C'è una pista che si snoda obliquamente, con una gran curvatura,

e resta compreso tra le sole zone senza toccare né il polo stradale,

né l'orsa dalla parte dell'Aquilone. Passa di lì;

Vedrai chiaramente le tracce delle ruote.

E perché il cielo e la terra ricevano pari giusto calore,

non spingere in basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo.

Spostandoti troppo verso l'alto, bruceresti le dimore celesti;

Verso il basso, la terra. A mezza altezza andrai sicurissimo.

E bada che le ruote non pieghino troppo a destra, verso il serpente contorto,

O non ti conducano troppo a sinistra, giù verso l'Altare.

Tieniti fra l'uno e l'altro. Per il resto mi affido alla Fortuna,

che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto tu sappia fare tu stesso.

Mentre parlo, la Notte umida ha toccato la meta, segnata sulle coste di Ponente.

Non ci è permesso indugiare, tocca a noi: l'Aurora, scacciate le tenebre, risplende.”

Fetonte salito sul cocchio lo fece partire, ma è troppo emozionato e ansioso di compiere la sua corsa sul carro del Sole e ascolta distratto e di tutti i suggerimenti paterni nemmeno uno fece in tempo a seguire, non appena i cancelli si aprirono.

Infatti i cavalli si lanciarono all'impazzata, come ogni giorno, nel cielo immenso e subito si accorsero che l'auriga non era quello che conoscevano: il suo peso era leggero e le briglie non avevano la tensione e gli strappi a cui erano abituati.

In un attimo il carro sobbalzò e sbandò. Fetonte fu preso dal panico e non sapeva come tenere i cavalli, così ce lo descrive Ovidio:

Allora per la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa ,

la quale cercò, invano, di immergersi nel mare ad essa vietato

ed il serpente, che si trova vicino al polo glaciale

e che è la prima era intorpidito dal freddo non faceva paura nessuno

si riscaldò e a quel bollore fu preso da una furia mai vista.

Raccontano che anche tu disturbato fuggisti, Boote,

benché fossi lento ed impacciato dal carro tuo.

quando poi l'infelice Fetonte si volse a guardare dall'alto nel cielo

la terra che si stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidì,

e un improvviso sgomento gli fece tremare le ginocchia,

e in mezzo a tutto quello luce un velo di tenebra di cagliò sugli occhi.”

Fetonte era sconvolto, impotente in balia dei cavalli impazziti nella foga della corsa, si pentì di ciò che aveva desiderato e si maledisse per la sua sconsideratezza, ma ormai era troppo tardi.

I cavalli lo trascinavano in una folle corsa nel fuoco, senza avere la minima idea di dove stessero andando e così si avventurarono prima troppo in alto, fino a costare contro le regioni più lontane, poi troppo in basso, vicinissime alla terra, che divenne tutto ad un tratto una trappola incandescente.

Passando così vicino alla Terra tutto arse e dove c'erano grandi delle foreste si formarono dei grandi deserti e i grandi fiumi si prosciugarono.

Quella traversata disastrosa avrebbe cambiato per sempre i connotati della madre terra dando a determinati tratti le sembianze che conosciamo oggi.

Fu allora che il popolo degli etiopi per l'affluire del sangue a fior di pelle, dovuto all'eccessivo calore, divenne di colore nero e fu allora che la Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto e del Nilo non si trovarono più le sorgenti.

Lo sconvolgimento non fu soltanto della geografia terrestre ma anche della gerarchia cosmica, che fu del tutto sovvertita, tanto che per la prima volta la luce del sole giunse là dove era proibito illuminare: il regno dei morti.

Secondo Diodoro Siculo, quando Fetonte non fu in grado di tenere le redini ed il carro del Sole cambiò il percorso abituale, prima di avvicinarsi alla terra attraversò i cieli, incendiandoli e formando la Via Lattea.

Superfluo è raccontare ciò che accade al mare e ai suoi pesci: l'acqua era in gran parte del evaporata e tutte le sue forme di vita, dalle piante agli uomini, stavano scomparendo per sempre, inghiottite dal fuoco e dal suo calore.

Ma Gaia, la terra, questo non poteva subirlo e così in uno sforzo al limite delle sue energie implorò Giove affinché mettesse fine a quella maledizione e il re degli dei intervenne:

Allora il padre onnipotente (Zeus Giove) chiamati a testimone gli dei

(compreso il sole che aveva prestato il carro)

che tutto sarebbe perito di morte crudele se non interveniva,

salì in cima alla rocca da cui suole falcare sulla terra i banchi di nubi,

da cui fare rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori

. . . . . .

Tuonò e librato un fulmine all'altezza dell'orecchio destro,

lo lanciò contro il Cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita

e arrestando l'incendio con una spietata fiatata.

. . . .

Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti,

precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia,

come a volte Una stella può sembrare che cada,

anche se non cade, giù dal cielo sereno.

finisce lontano dalla patria, in un'altra parte del mondo,

del grandissimo Po, che gli deterge il viso fumante. “

Viene narrato che oltre a Gea la terra e agli Dei, anche la madre di Fetonte pregò Zeus di porre fine a quel grande disastro cosmico e lui, Giove, prima che la terra fosse perduta non perse tempo, preparò una delle sue folgori e la scagliò contro il carro colpendo in pieno il giovane auriga.

Fetonte precipitò in fiamme dal cielo, come una stella cadente e finì senza vita nelle acque dell' Eridano, già . . . proprio nel fiume Po.

Secondo gli studi degli antichi scritti sono stati individuati i probabili punti lungo l' Eridano, dove Fetonte potrebbe essere precipitato: uno si trova all'altezza dell'odierno Crespino un paese sulla sponda Veneta, dove sopravvive ancora questa leggenda e da cui nasce la denominazione della piazza principale del paese. Inoltre Il comune di Crespino ha come stemma lo scudo araldico che riproduce il mito di Fetonte.

Un altro punto viene individuato non molto distante ma più a ovest, nei pressi di Pontelagoscuro e questa localizzazione e supportata dal racconto mitologico degli Argonauti; gli eroi greci che vagando alla ricerca del mitico vello d'oro, solcarono anche le onde dell'adriatico dove Eracle fondò la odierna Eraclea.

Il loro errare li portò a risalire il fiume Eridano passando in un punto dove il fiume formava una zona paludosa e insalubre chiamata successivamente il lago oscuro. In quel luogo, raccontano, dove ancora giaceva il corpo fumante di Fetonte, i cui miasmi avvelenavano addirittura gli uccelli e da cui naque l’espressione ‘fetido’ o ‘fetente’.

E questa fu la fine di Fetonte che volle guidare il carro del sole, ma la storia non finisce qui, nonostante l'accaduto nessuno odiò mai quel ragazzo e sia il padre, che la madre, le sorelle e le Ninfe, le Naiadi, lo piansero a lungo ai bordi delle rive del fiume.

E in quella circostanza accade che le rive del Po si orlarono dei caratteristici pioppi che da allora lo accompagnano nel suo lungo il tragitto.

Fino ad allora le rive erano spoglie, ma in quei giorni, mentre le sorelle si battevano il petto in un pianto ininterrotto, il loro corpi si trasformarono in alberi, dapprima i piedi e poi su fino ai capelli, che divennero verdi fronde.

Alle Eliadi rimase solo la bocca per chiamare la madre e annunciarle l'inatteso prodigio; finché la corteccia non le privò per sempre anche della parola e allora dal legno fuoriuscirono lacrime di una sostanza nuova: l'ambra, che al calore del sole s'indurì e cadendo nel fiume venne trasportata dalla corrente.

Le metamorfosi si estesero anche ad un caro amico di Fetonte che, come le Eliadi, stava piangendo in riva al Po l'audace figlio del Sole, era Cicno, re dei liguri, che disperato invocò la pietà di Apollo il quale lo trasformò in un uccello mai esistito fino a quel momento, un cigno e lo dotò di una voce melodiosa.

Di fronte a una favola tanto coinvolgente l'arte non poteva mancare l'appuntamento, infatti la storia di Fetonte è stata celebrata da moltissimi artisti che, oltre ad avere una sostanziosa risorsa da cui attingere per manifestare il loro genio, ne approfittarono per esprimere attraverso l'arte a cose conduce la superbia umana, quando pretende di misurarsi con la potenza Divina.

Un'altra interpretazione fu quella della rovina a cui andò incontro il giovane sprezzante che disdegnò i consigli di chi era più vecchio e aveva più esperienza di lui, in questo caso il padre Apollo.

C'è chi vede nel mito di Fetonte la trasposizione di fenomeni meteorologici e astronomici o anche il ricordo collettivo di catastrofi naturali.

Fetonte è il sole che ogni sera precipita nel mare a occidente rischiarando l'orizzonte con il bagliore di un incendio.

Secondo gli storici e gli archeologi la leggenda andrebbe ambientata nella pianura del Po e sarebbe legata alla via dell'ambra, che dalla pianura Padana risaliva al Baltico.

Così la vicenda di Fetonte e delle sorelle Eliadi dalle lacrime di Ambra, si è caricata di riferimenti topografici, umani e folkloristici e ha conosciuto oltre allo sviluppo culturale anche la tradizione orale.

La leggenda di Fetonte ha ispirato nell'antichità classica molti artisti con quadri, affreschi, mosaici, sculture e tante altre opere e divenendo, dal Medioevo, anche un elemento della simbologia funeraria, scegliendo questa leggenda per decorare le tombe delle vittime di incidenti.

C'è chi ha colto il nesso tra il mito e la prospettiva platonica e stoica della distruzione ciclica della terra al termine di ogni periodo cosmico.

Vario è l'atteggiamento dei poeti latini nei confronti di questo mito, da Lucrezio Plinio il Vecchio i riferimenti alla leggenda di Fetonte sono frequenti e legati alla suggestiva grandiosità della vicenda; ma il mito assume anche un doppio simbolo: morale e personale.

Fetonte è il figlio che si rivolta contro il padre o, più generalmente, è l'orgoglioso che vuole elevarsi troppo in alto e perciò è punito anche se, a giudizio di alcuni autori, questo suo coraggio è eroico e ammirevole.

Orazio nelle sue “Lodi” scrive:

L'arso Fetonte ti insegna a inseguire sempre, obiettivi a misura d'uomo,

e ritenere sacrilego sperare al di là dei limiti consentiti. “

La lezione morale è indicata da Ovidio stesso all'inizio dell'episodio:

è un castigo, Fetonte, quello che tu invochi come favore.

mostra più saggezza nei tuoi desideri.”

Ma poi l'ammirazione del poeta viene espressa nell'epigrafe finale:

. . qui giace Fetonte, che volle condurre il carro Paterno.

Se non fu capace di farlo, almeno morì vittima di una nobile audacia.”

Infine C'è il simbolismo politico, secondo il quale Fetonte incarna la rivolta contro il potere.